Nel Trecento-Quattrocento si passò in breve dal Bene comune al bene del Comune:
la Chiesa giustificava l’azione degli uomini nuovi del mercato se giovava alla città.
Una storia che ha per protagonisti i Medici e altri magnifici fiorentini, sant'Antonino, il bene comune e i Re
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Lungo la storia i patti tra ricchezza e religione sono sempre state faccende complicate,
dagli esiti in genere molto diversi dalle intenzioni dei loro protagonisti. La Firenze del
Trecento-Quattrocento è stata il palcoscenico di una di queste sostituzioni, dove si giocò
una partita decisiva per l’etica economica moderna. I suoi protagonisti furono i Medici,
sant’Antonino Pierozzi (1389-1459), la categoria del bene comune e i Re magi.
Cominciamo dal bene comune. Questa fondamentale categoria teologica tra il Trecento e il
Quattrocento subisce una torsione semantica e pratica. Le ragioni del bene comune
vinsero sulle ragioni teologiche della condanna del lucro. La teologia del bene comune
divenne sempre più la nuova teologia delle nuove città. Un bene comune che diventa
sempre più concreto, profondamente legato all’altra grande categoria di comunità; tanto
che il passaggio dal Bene comune al bene del Comune fu molto veloce.
Quasi ogni azione economica degli uomini nuovi del mercato finiva per essere giustificata
dalla Chiesa se giovava al bene comune della città. E siccome in quei secoli il bene
comune e quello del Comune erano, di fatto, quello dei grandi mercanti-banchieri, si finiva
per far coincidere il bene comune con quello delle corporazioni dei mercanti.
Sant’Antonino, domenicano, vescovo, teologo ed “economista”, da pastore ed esperto di
accompagnamento di laici e laiche, era cosciente che in queste materie economico-
finanziarie esiste una grande complessità. E così parlando delle vendite “a termine”,
concludeva: «Tuttavia questa è una materia molto complicata e non molto chiara, ragion
per cui non si deve approfondirla» (“Summa theologica”). Non si deve approfondirla: è
proprio questa “complicazione” che evidenzia qualcosa che ormai è cambiato a Firenze e
nelle nuove città commerciali. La nascita dei liberi Comuni, l’affermazione di una classe di
mercanti, con loro leggi e tribunali speciali, stavano cambiando profondamente il rapporto
tra princìpi teologici e prassi economica. Le Scritture e le loro condanne all’usura erano
sempre le stesse, e la diffidenza dei Padri della Chiesa verso commerci e commercianti
restava ancora un magistero essenziale e immutato. Ma l’emergere di una nuova realtà
economica, sempre più complessa, rendeva l’antica Scrittura e la teologia non adatte per
disciplinare i tanti casi concreti degli affari, che – e qui sta il punto – tanto bene stavano
facendo alla città e alla Chiesa. La realtà fu superiore all’idea. Il “civil mercatante” divenne
l’immagine del negotiumche vince l’otiume lo nega (nec-otium).
Siamo qui di fronte ad una autentica rivoluzione etica, teologica, sociale ed economica. La
teologia degli ecclesiastici inizia così progressivamente ad allontanarsi dall’ambito
economico, divenuto troppo complesso, e si specializza sempre più in quella personale e
familiare e della vita delle istituzioni religiose. Il mercante viene curato in quanto individuo,
che nel confessionale elenca le sue colpe e ottiene le sue penitenze, sempre più
facilmente commutate in denaro tramite le nascenti indulgenze; ma lo sguardo etico sulla
vita pubblica, che aveva caratterizzato i primi due tre secoli del secondo millennio, si
ritrasse e si trasformò in generiche raccomandazioni affidate alle prediche quaresimali. In
materia di usura, ad esempio, le eccezioni lecite erano talmente astratte da non consentire
giudizi concreti ed efficaci. Quasi ogni tasso di interesse diventava potenzialmente lecito
(per generici lucro cessante o danno emergente), soprattutto se l’interesse era a vantaggio
del bene comune e del bene del Comune (cioè della città). Così, per il debito pubblico
fiorentino, accadeva che se ad emettere debito era il Comune, il tasso lecito del 5% annuo
cresceva fino ai tassi usurari del 10 e 15%. Come? Il Comune, «per non incorrere nella
censura della Chiesa fece ricorso all’ingegnoso sistema del “Monte dell’un due”, e del
“Monte dell’un tre”: a chiunque portava al Monte 100 lire ne faceva segnare nei registri 200
o 300» (Armando Sapori, “Case e botteghe a Firenze nel Trecento”, 1939).
La ragione di tutto ciò non fu certo il bene comune, ma «la cupidigia del largo profitto, il
quale molti n’à tratti dalla mercanzia in sull’usura» (Giovanni e Matteo Villani, 'Cronica'
VIII).
Le ragioni del bene comune e del bene del Comune divennero talmente intrecciate e
centrali da giustificare pratiche commerciali che noi oggi non riusciamo neanche a capire.
Tra queste la rappresaglia mercantile. Quando, cioè, i mercanti di una città subivano in
territorio straniero atti di violenza e di danneggiamento, le consuetudini mercantili
consentivano la rappresaglia, cioè atti di ritorsione da parte dei danneggiati nei confronti
di qualsiasi mercante della città dove era avvenuto il danno, a prescindere da ogni
coinvolgimento diretto degli interessati con l’episodio in questione. Il bene comune del
corpo mercantile preva-leva su quello dei suoi singoli individui. Inoltre, affinché i forestieri
potessero acquistare titolo del debito pubblico di Firenze, era necessario che fosse loro
concessa la cittadinanza, e negli atti di concessione di questa cittadinanza ex privilegio la
retorica più usata era quella dell’amicizia e del bene comune: «Con l’amico fedele nessun
affare può superare il valore dell’amicizia, che vale più dell’oro e dell’argento» (Lorenzo
Tanzini, “I forestieri e il debito pubblico”).
Questa alleanza tra Chiesa e mercanti in nome del bene comune produsse un’esplosione
di magnificenza. Il dispositivo per rendere la ricchezza buona e santa si sposta dalla
produzione al consumo: ciò che davvero conta non è, come in passato, come si genera
ricchezza ma come la si usa. Il ricco mercante diventa benedetto se spende una buona
parte dei suoi averi per l’assistenza dei poveri, ma ancor più per rendere magnifica la città,
i suoi palazzi e le sue chiese. Firenze in tutto questo è emblematica, grazie anche alla
speciale amicizia che si realizzò tra Sant’Antonino e la famiglia Medici: «Due sono le virtù
del denaro e del suo uso: la liberalità e la magnificenza» (Antonino, “Summa”).
Il rapporto tra Chiesa fiorentina e i suoi grandi mercanti fu un perfetto mutuo vantaggio: i
mercanti furono liberati dai mille laccioli teologici su usura e profitti, e le chiese furono rese
magnifiche dalla loro enorme ricchezza generata anche dalla liberazione dai vincoli
religiosi. Ma in questa fase di affermazione di una nuova etica economica, centrale restava
sempre l’elemento religioso. Infatti più che di laicità occorre parlare di una nuova religiosità.
Perché i laici e i mercanti si impadronirono di alcune immagini e codici religiosi.
A loro non bastava l’autonomia dalla religione, la volevano dalla loro parte. Non bastava
essere ricchi e buoni: volevano essere anche santi.
Abbiamo già parlato della diffusione di Maria Maddalena, intesa come icona del buon uso
pubblico del denaro da parte dei ricchi. Un altro paradigma religioso mercantile che si
afferma tra Medioevo e Modernità è quello dei Re magi. L’ordine domenicano contribuì non
poco alla diffusione del loro culto in Europa. A Firenze già verso la fine del Trecento era
attiva la prestigiosa “Compagnia dei Magi” (o “della Stella”), una associazione di mercanti,
di cui erano soci anche molti filosofi, umanisti, letterati, artisti e vari altri esponenti del
mondo culturale fiorentino, forse la congregazione laicale più importante del Quattrocento
fiorentino, che ebbe la sua età dell’oro con Sant’Antonino e i Medici (Monika Poettinger,
“Mercanti e Magi”). Questi ricchi mercanti che, senza diventare poveri, adoravano il Cristo
con oro e doni, si prestavano perfettamente alla nuova etica economica dei ricchi della
città. In molte chiese domenicane di questi secoli si trovano affreschi che rappresentano i
Magi, incluso il convento domenicano di San Marco a Firenze, la sede della Compagnia
dei magi, dove si concludeva la spettacolare processione dei Magi del giorno dell’Epifania.
Ma la “cavalcata dei Magi” era parte essenziale anche di altre importanti processioni
cittadine, come quella in occasione della festa di san Giovanni, presieduta da
Sant’Antonino: «Tre magi con cavalleria di più di 200 cavalli ornati di molte magnificenze»
(Matteo Palmieri, “La processione del 1454”). Spettacolare!
Nel 1420 Palla di Noferi Strozzi, il più ricco mercante-banchiere di Firenze, commissionò a
Gentile di Fabriano un dipinto dei Magi, con in prima fila del corteo lo stesso Palla e la sua
famiglia. I Medici fecero molto per i domenicani in Firenze, tra cui la costosissima
ristrutturazione della Badia Fiesolana e del convento di San Marco, dove il Beato Angelico
dipinse un’Adorazione dei Magi nella cella dedicata a Cosimo. Cappelle simili dedicate dai
mercanti ai Magi le troviamo anche in altre città rinascimentali (a Torino, ad esempio).
Il ruolo della Compagnia della Stella divenne così importante da trasformarsi, nonostante la
benedizione di Sant’Antonino, in una sorta di nuova religione. Gentile de Becchi scrivendo
da Roma a Lorenzo il Magnifico nel 1467, gli assicurava che i cardinali del collegio del
Papa avrebbero concesso «per tua intercessione dj’ cento de indulgentia» a chiunque
frequentasse le riunioni della Compagnia de’ Magi, durante le quali si poteva ricevere
anche l’eucarestia per dispensa papale (Rab Hatfield, “The Compagnia de’ Magi”).
Marsilio Ficino (“De stella Magorum”, 1482), Pico della Mirandola e i neoplatonici di Firenze
fecero il resto, trasformando i Magi nell’icona di una religiosità pagana, precristiana ed
esoterica, su cui fondare il Rinascimento dell’Europa. È la fine dell’Umanesimo civile,
l’inizio della decadenza di Firenze e delle città italiane. Quel patto Chiesa-mercanti fu il
frutto maturo di una grande seduzione della magnificenza che quel primo “capitalismo”
esercitava sulla Chiesa (Sant’Antonino è uno dei primi teorici del “capitale”). Lutero nella
sua Riforma fu colpito proprio da questa alleanza tra Chiesa e mercanti, che lui considerò
una deviazione dalla logica evangelica. Ma proprio il mondo nato dalla Riforma diede vita,
secoli dopo, a un nuovo capitalismo della ricchezza che, ancora una volta, sta usando
simboli e linguaggi della religione cristiana.
Ma come riuscirono i “mercanti” di Firenze ad occupare il “tempio”?
Noi non abbiamo più le categorie per comprendere quale fosse l’impatto sui cittadini di
Firenze delle ricchezze e del lusso immenso dei nuovi mercanti. I loro panni stupendi, i
nuovi colori scintillanti, le processioni mirabili, palazzi e chiese mai viste; fu qualcosa di
fantastico, nuovi racconti delle “Mille e una notte”, che seducevano e “convertivano”.
Erano i nuovi eroi, gli eredi, ancora più belli, dei cavalieri del Medioevo, incantavano tutti.
Firenze la nuova Terra promessa, dove scorreva latte e miele. I mercanti conquistarono il
mondo, convertirono l’etica antica, soprattutto con la bellezza e con lo stupore.
Non vinsero con i fiorini, ma con la loro magnificenza. Sarà, allora, una nuova bellezza che
ci salverà da questo capitalismo dove troppi Re magi si sono alleati con re Erode, gli hanno
detto dove si trova il Bambino e sono diventati complici delle molti stragi degli innocenti?
Forse, sarà la nuova bellezza, certamente molto diversa, ma ancora e sempre stupenda.
Luigino Bruni